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Hannah Arendt

Rahel Varnhagen

Storia di un’ebrea

Rahel Varnhagen: Lebensgeschichte einer deutschen Jüdin aus der Romantik, 1957


Il Saggiatore 1988. Traduzione italiana di Lea Ritter Santini
Recensione di Gastone Redetti, pubblicata in Miopia n.8, febbraio 1991. Illustrazioni aggiornate.

RahelVarnhagen
Rahel Levyn Varnhagen

Questo notevole lavoro giovanile della filosofa Hannah Arendt, la biografia di Rahel Levyn (Berlino 1771-1833), è stato pubblicato solo nel 1959 e tradotto in Italia nel 1988.

Non si tratta di un’agiografia, e nemmeno di una biografia benevola. Ciò non impedisce che questa lettura imprima una vivida immagine della figura di Rahel, anche grazie alla scelta - copiosa e veramente felice - di scritti di Rahel stessa, tra cui la descrizione di alcuni straordinari sogni.

Se Rahel Levyn, un genio nata donna ed ebrea, fosse nata anche povera, semplicemente non ne potremmo parlare, perché non ci sarebbe più traccia di lei. Fu invece suo destino di nascere non-povera e non-ricca, di avere accesso al “mondo”, e poi all’esistenza e alla memoria storica. Ma l’elevazione di Rahel fu così incompiuta e costellata di sofferenza, che la traccia che ella lascia è essenzialmente una vivida testimonianza dell’impotenza sociale e dell’emarginazione ovvero, secondo un concetto di Hannah Arendt (1), della condizione di “paria”.

Figlia di un agiato commerciante, Rahel Levyn accede a un tipo di istruzione e cultura “europei” grazie a circostanze storiche particolarissime: la giovinezza di Rahel si svolge infatti a Berlino, nel cuore della Prussia, al tempo del governo di Federico II, statista profondamente influenzato dall’illuminismo e fautore di riforme che in qualche modo promuovevano l’integrazione e i diritti civili degli ebrei, a quei tempi segregati e perseguitati in tutto il mondo cristiano.

In tale clima di tolleranza, eccezionale per uno stato europeo non direttamente coinvolto dalla rivoluzione borghese, Rahel fonda e conduce ancora giovanissima unsalon frequentato dagli intellettuali e dalla nobiltà; il fatto che si tratti di un “salotto ebraico” riduce molto le formalità sociali, e la casa di Rahel costituisce una specie di zona franca dove hanno modo di incontrarsi esponenti di classi sociali diverse.

L’essere ebrea (e in sostanza non sposabile perché non abbastanza ricca e quindi non integrabile con la società che la frequenta) è in certo senso l’irregolarità che permette il lancio di Rahel in una vita intellettuale preclusa alle donne tedesche della buona società cristiana.

Negli anni del suo salon, Rahel ha il suo momento di gloria, che non durerà tuttavia a lungo. Presto orfana di padre, Rahel si trova a dipendere economicamente dalla madre e dai fratelli. La morte della madre, che non ha fatto testamento, la lascia priva della "dote" che sola le consentirebbe un inserimento sociale attraverso il matrimonio. La relativa povertà in cui viene a trovarsi le impedisce di continuare a gestire il salon. Inoltre la situazione politica muta completamente con l’occupazione di Berlino da parte dell’esercito napoleonico nel 1806. Tra gli intellettuali tedeschi e gli stessi amici e frequentatori di Rahel comincia a prendere piede un nazionalismo in cui - già allora - è presente un’ideologia violentemente anti-ebraica. Quasi tutta la cerchia di Rahel si allontana da lei.

Non povera, non ricca. Ammessa nel mondo della cultura e poi esclusa: la storia di Rahel diventa in gran parte storia di solitudine e di disperazione.

Nella sua grandezza intellettuale, Rahel colse e seppe esprimere il dolore dell’emarginazione totale, senza scampo e senza fondo, dove l’intelligenza si scontra con ostacoli insormontabili e la personalità deve fare i conti con mutilazioni che si susseguono una all’altra. Rahel divenne una esasperata testimone di se stessa in un ripiegamento nell’interiorità forzato dalle circostanze esterne, ma illuminato da straordinarie doti intuitive.

Rahel Levyn svolse una vera ricerca, anche se non ha lasciato né teorie filosofiche né opere letterarie ma solo moltissime lettere. Se gli epistolari - come la diaristica - sono un genere “tipicamente femminile”, proprio il caso di Rahel dovrebbe far riflettere come la scelta di un "genere" possa essere frutto di circostanze storiche avverse e di emarginazione. Rahel non scelse il suo destino, non le piacque, non se ne sentì mai appagata.

La vergogna è la categoria che più di tutto esprime la consapevolezza esistenziale di Rahel. In un sogno, ella vede se stessa “ai margini del mondo” in compagnia di altre due donne: un’amica e la Madonna.

la nostra occupazione... era chiederci a vicenda quello che avevamo sofferto, - insomma una specie di confessione!

"Conosci l’umiliazione?" ci domandavamo, per esempio; e se avevamo provato questo dolore nella vita, dicevamo: "Sì! certo che lo conosco", con un grande urlo di dolore; quel dolore, di cui si parlava, si strappava centuplicato dal cuore: però ci si liberava di lui eternamente e ci si sentiva del tutto guarite e leggere. La Madre di Dio restava silenziosa, diceva soltanto di sì, piangeva anche lei. Bettina domandò "Conosci le sofferenze d’amore?...

e così via, nel sogno si succede domanda a domanda: conosci l’umiliazione, l’ingiustizia e il torto, la gioventù assassinata... e sempre lo stesso grido "sì!" collettivo e purificatore. Finché:

...avevamo finito, i nostri cuori erano purificati; il mio ancora colmo di un pesante carico terreno... chiedo "conoscete la vergogna?"
Tutte e due si allontanano da me, come prese da orrore, con ancora un po’ di compassione nei loro gesti. Si lanciano una rapida occhiata e si sforzano, nonostante lo spazio ristretto, di allontanarsi da me. In uno stato che rasenta la follia grido: "Ma non ho fatto nulla. Sono innocente!" Le donne mi credono... ma non mi capiscono più... Fuori di me, com’ero, affrettai il risveglio. Ma anche da sveglia, il peso mi è rimasto, perché lo porto nella realtà; e se ci fossero esseri umani che lo capissero interamente, mi sentirei come consolata (2).

"Vergogna" è dunque il nome meno inadeguato per la più insondabile delle sofferenze, quella che non può essere condivisa... non perché sia di per sè incomunicabile, ma perché non è visibile persona alcuna che la condivida realmente, e non è questione di buona volontà né di compassione.

Rahel mostra una profonda consapevolezza della propria condizione: parla della “sfortuna”, ossia del condizionamento storico che la esclude dal mondo, con una lucidità sconcertante. Il suo linguaggio, pur legato allo stile romantico del tempo, è scarno, essenziale, teso a investigare le categorie dell’anima con una penetrazione che anticipa l’esistenzialismo filosofico e letterario.

Rahel non annovera l’essere donna tra le condizioni che le hanno tarpato le ali. Una tale consapevolezza non era ancora nei tempi. Per Rahel, l’unica via di liberazione è l’elevazione sociale: di qui l’esigenza impellente di emancipazione dall’ebraismo. Per tutta la vita Rahel cercherà di cancellare l’umiliazione “originaria” della sua nascita.

L’origine ebraica appare sempre più come il nodo più doloroso dell’emarginazione, e continuerà a pesare sulla sua vita anche quando avrà ottenuto l’emancipazione tramite il matrimonio con un uomo non ebreo: nel nuovo clima antisemita in alcuni ambienti si riceverà suo maritoma non lei.

Ma questo non basta a spiegare il fenomeno Rahel. Vi furono in quell’epoca uomini ebrei tormentati dallo stesso problema di Rahel, che reagirono in modo diverso, partecipando ad attività di riforma sociale, e comunque mantenendo un’integrazione col mondo patriarcale delle proprie origini. Rahel invece soffre di uno sradicamento totale, assoluto. Il fatto è che quando Rahel esercita la sua intelligenza e tenta di porsi come soggetto storico e intellettuale, sfugge alla tradizione patriarcale ebraica: la sua esistenza personale come donna appare indissolubilmente legata con la cultura europea e con l’illuminismo. Ma l’approdo a questa cultura resta parziale e non cancella lo sradicamento di Rahel: l’essere donna le preclude ogni possibilità di essere un soggetto storico.

Del resto la stessa gestione di un salon implica un ruolo subalterno: nel salotto si discute di una cultura fatta da altri, dagli uomini. Oltre a questo ruolo - al quale fu comunque, come abbiamo visto, dolorosamente strappata - Rahel non avrebbe potuto aspirare. Ella stessa è lontana dal pensarsi come una potenza intellettuale e coltiva per tutta la vita - come ideale lontano e irraggiungibile - il mito di Goethe: è lui il grande tedesco dell’epoca. Lei resta sempre appartata, lascia perdere le occasioni in cui potrebbe approfondire la conoscenza con lo stesso Goethe. L’istinto la rende consapevole che si tratta di un rapporto impossibile.

Rahel avverte dunque con chiarezza di essere esclusa dalla “cultura”. Così, verso la fine della sua vita, ella grida il pericolo che venga persa la testimonianza della sua anima: non ha avuto spazio, riconoscimenti, esistenza. Da ultimo crederà di trovare chi le avrebbe reso testimonianza nel poeta Heine, cui scrive:

“Nessuna ammissione nelle liste di beneficenza, nessun evviva, nessuna condiscendenza, nessuna società ebraico-cristiana, nessun nuovo libro di preghiere, nessuna decorazione civile, nulla, nulla ha potuto rendermi tranquilla [...]. ÈLei che dovrà dirlo in maniera meravigliosa, elegiaca, fantastica [...]. Ma il testo della Sua poesia dovrà restare quello del mio vecchio cuore offeso.”

Probabilmente, quella che può apparire una mancanza di simpatia di Arendt nei confronti di Rahel, deriva anche da un’intensa identificazione non riconosciuta o quanto meno non ammessa e non elaborata (Arendt stessa era ebrea e visse in tempi tremendi per gli ebrei).

Tutto il libro sembra segnato da una mancanza di adesione emotiva. Rahel è presentata con insistenza sotto l’aspetto della parvenue; le sue debolezze, il suo “individualismo”, le sue ansie di ascesa sociale le vengono rinfacciate senza compassione né comprensione.

La critica che Arendt esercita sul suo personaggio è a tratti così lapidaria, da turbare profondamente.

Arendt, rifiutando in fondo l’identificazione cosciente con Rahel, finisce spesso per svilirla, per smontarne quasi sistematicamente la vita e il significato. Non si tratta di una contestazione, di un confronto. Si ha piuttosto l’impressione di essere di fronte al problema (storico) della mancanza di riconoscimento da donna a donna.

Arendt certo è profondamente affascinata da Rahel: ma qualcosa le impedisce di riconoscerla a pieno titolo come soggetto storico. Giunge ad affermare la “totalità” di Rahel, ma senza trarne tutte le conseguenze: meno che mai riesce a vedere in lei una maestra o un’iniziatrice.

Adriana Cavarero ha analizzato l’ambiguità dell’atteggiamento di Arendt nei confronti di Rahel (e in generale delle donne) nella prospettiva del pensiero della differenza sessuale rendendo esplicito quello che nel pensiero di Arendt sembra implicito e tuttavia presente: che il nascere donna nell’ordine simbolico patriarcale è di per sè uno sradicamento, un essere fuori posto o senza posto (4). Un tipo di rilettura e di recupero che ci aiuta a capire come mai l’impietosa biografia di cui ci stiamo occupando risulti tuttavia tanto avvincente, dando il senso di portarci veramente nel cuore di un problema.

In appendice al libro di Arendt è riportata una corrispondenza tra l’autrice stessa e Karl Jaspers, filosofo tedesco rifugiato in Svizzera per la sua opposizione al nazismo, che fu uno dei suoi maestri.

Jaspers le rimprovera - sia pure affettuosamente - una certa incomprensione per Rahel, per

la grande figura di questa donna che trema e che sanguina, senza casa e senza patria, senza mondo e senza fondamento, nell’unico amore; che è così sincera da capirlo in una riflessione infinita [...] Lei questa figura la rende viva e la fa parlare; ma non da un centro, dall’interno della persona stessa, essenzialmente non ebrea, ma la fa attraversare il mondo da ebrea e quindi vivere anche i mali estremi che non accadono soltanto perché è ebrea" (5).

L’uomo Jaspers rivendica per Rahel proprio ciò che la biografa donna sembra negarle: il riconoscimento. La totalità, l’interezza della persona. E quindi anche il diritto ad essere giudicata per l’insieme e non per i singoli fatti, per dettagli della vita di cui è troppo facile gioco mostrare la meschinità. Anche un Goethe - ricorda Jaspers - ha le sue deviazioni. Goethe è nel mito. Anche Rahel, per Jaspers, è nel mito.

Karl Varnhagen
Karl Varnhagen

La divergenza tra Arendt e Jaspers riguarda anche Karl Varnhagen, l’uomo che a trent’anni divenne il marito di Rahel già quarantatreenne. Varnhagen era un intellettuale irrequieto, un uomo scarsamente adattato alla società del suo tempo, non ricco, non “inserito”. L’amore di Varnhagen per Rahel era frammisto ad una sconfinata stima e ammirazione intellettuale. Il matrimonio con Varnhagen, preceduto dal battesimo cristiano, costituì per Rahel l’agognata emancipazione dall’ebraismo, ma non fu certamente un biglietto di reingresso nella società colta, data l’oscurità sociale di Varnhagen e anche un certo disprezzo che per lui nutrivano i poco fidati amici o ex amici di Rahel.

Varnhagen, sposando Rahel, impostò la sua vita in un modo molto singolare per uomo: in sostanza dedicò le sue forze per assicurare a Rahel quel posto nel mondo che il mondo le rifiutava. Per ottenere ciò egli intraprese una carriera prima militare poi diplomatica, che era estranea al suo temperamento. Siamo abituati allo stereotipo romantico della donna che sacrifica la sua vita a favore della realizzazione di un artista e per il quale l’uomo sradicato può sopravvivere e dar voce ai suoi fantasmi entro una società in cui non è integrato, perché c’è una donna che lo ama, che lo sorregge maternamente e cura senza posa le sue ferite psichiche. Qui, eccezionalmente, l’uomo sacrifica i suoi fantasmi per una donna di cui vede e proclama la superiorità.

Karl Varnhagen, il suo anomalo operato, la sua sottomissione a una donna sono tra i principali bersagli della biografia scritta da Arendt. Arendt pensa che Jaspers, nella sua altissima valutazione della figura di Rahel, è sviato e accecato proprio dall’immagine che di lei ha tramandato Varnhagen. Varnhagen, scrive Arendt,

“non ha nulla da perdere. E per darsi, in qualche modo, l’aria di essere qualcosa, non rifugge da nessuna manifestazione grottesca. L’intelligenza non lo mette in guardia dalla ridicola assurdità di farsi profeta di una donna...” (6).

Varnhagen non è visto da Arendt nel suo dramma. Egli è rappresentato come un individuo meschino, banale, che pare non aspettasse altro che parassitizzare Rahel per uscire dall’ombra, per crearsi una scena.

È probabile che Varnhagen non sia sempre stato equilibrato né intellettuamente adeguato. Egli per elevare, per propagandare Rahel, usò a volte un linguaggio che che può facilmente essere frainteso e attaccato, come quando per esempio andava asserendo che Rahel era la terza incarnazione della nazione ebraica, quella perfetta, dopo Cristo e dopo Spinoza. Alla stessa Rahel dispiaceva questa condotta perché, a differenza di lui, valutava fino in fondo il ridicolo, l’impatto sull’ambiente di tali esaltazioni di una donna fatte da un uomo.

Ma non stupisce che Varnhagen si sia lasciato andare a un linguaggio così metaforico o idolatrico. La donna di cui Varnhagen si innamorò aveva veramente dei tratti “profetici”: di lei, colpisce l’attaccamento alla verità, colpiscono le certezze che, come sono in genere i frutti di quella che Jung definisce funzione intuitiva, tendevano ad essere assertive e apparentemente dogmatiche.

In fondo Varnhagen tentava di esprimere un’esperienza che si trovava a vivere da solo: egli tentava di compensare la sottovalutazione di Rahel da parte dell’ambiente. Rahel ebbe tanti amici che fluttuarono attorno a lei come attorno a uno spettacolo interessante, “estetico” (ed eccezionale è il modo in cui lei stessa esprime la consapevolezza di ciò), e sui quali non riuscì mai a fare una presa adeguata.

Arendt esteriora un certo disprezzo proprio per l’uomo che, unico fra tutti, sostenne realmente Rahel infrangendo il tabù che vieta a un maschio di riconoscere il valore e l’autorevolezza della donna, specialmente della donna con cui forma una coppia. Infrangere questo tabù significa ancora oggi - per un uomo - rompere l’omertà maschile, esporsi a una forte disapprovazione sociale. Come si accusa di autoritarismo - magari tramite l’insistente applicazione di soprannomi dall’apparenza scherzosa - la donna che appena tenti di sottrarsi ad uno stato di sottommissione reale e storico, così molto facilmente si dileggia come “sottomesso” l’uomo non appena in una coppia compaiano lievissime tracce di correzione della disparità di potere tra i sessi.

Se qui ho accostato all’atteggiamento di Hannah Arendt quello di due uomini, Jaspers e Varnhagen, che non ebbero verso Rahel Levyn le riserve di Arendt, non è certo per proporre una contrapposizione, né tantomeno per rivendicare una priorità maschile di comprensione. Hannah Arendt è - in questo suo libro giovanile - una pensatrice lontana dal femminismo: ciononostante, ella ha profuso energie ingenti per scrivere la biografia di una donna, che resta a tutt’oggi un testo di enorme interesse. Dal canto loro Jaspers e Varnhagen, per motivi e con sfumature diverse, sono eccezioni tra gli uomini. Le loro voci, così lontane tra loro nel tempo, ci aiutano a ricordare come la negazione storica delle donne sia una ferita che in qualche modo investe entrambe le metà del cielo, e contribuiscono in particolare a proporre agli uomini un’alternativa di vita e di pensiero.

Gastone Redetti

1) Hannah Arendt, Rahel Varnhagen - Storia di un'ebrea (Il Saggiatore, 1988, traduzione italiana Lea Ritter Santini).
2) Arendt, op.cit. pag.148 e 149.
3) Ibidem pag.233.
4) Adriana Cavarero, Dire la nascita. In Diotima - Mettere al mondo il mondo, La Tartaruga Edizioni, 1990.
5) Arendt, op.cit. pag.248.
6) Ibidem pag. 157.

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